Invocazione ad Iside di un uomo perseguitato dalla grande sventura. APULEIO, L'Asino d'oro, XI


O regina del cielo,
o sia pure tu l'alma Cerere,
antichissima madre delle messi,
che per la gioia della figlia ritrovata
all'uomo offristi un cibo più dolce 
che non quello ferino delle ghiande,
e fai più bella con la tua promessa la terra di Eleusi; 
o anche la celeste Venere 
che all'inizio del mondo desti la vita ad Amore
e accoppiasti sessi diversi 
propagando la specie umana con una discendenza ininterrotta,
onorata ora in Pafo, circondata dal mare;
o sorella di Febo, 
che alleviando con dolci rimedi i dolori del parto
hai dato vita a tante generazioni e ora
sei venerata nei santuari di Efeso; 
o che tu sia Proserpina, 
la dea che atterrisce con i suoi ululati notturni, 
che nel tuo triplice aspetto
plachi le inquiete ombre dei morti e 
chiudi le porte dell'oltretomba e 
vaghi per i boschi sacri, con riti diversi,
tu che con virginea luce illumini tutte le città,
che nutri con i tuoi umidi raggi le sementi feconde,
e nei tuoi giri solitari spandi il tuo incerto chiarore,
sotto qualsiasi nome, con qualsiasi rito,
sotto qualsiasi aspetto sia lecito invocarti,
soccorrimi in queste mie terribili sventure,
sostienimi nella mia sorte infelice,
concedimi un po' di pace,  
una tregua dopo tanti terribili eventi,
che cessino gli affanni, che cessino i pericoli.
Liberami [...], rendimi agli occhi dei miei cari,
fammi tornare "quello che ero".
E se poi qualche divinità che ho offesa 
mi perseguita con crudeltà così accanita
 mi sia almeno concesso di morire
se non mi è lecito vivere.

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